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“Questi omicidi hanno tre cose in comune: non hanno niente in
comune; non si conosce il movente; non si conosce il colpevole”
J.Feiffer, Piccoli omicidi

Fortunatamente, rispetto alla sarcastica e disarmante considerazione dell’inetto detective che indaga sui “piccoli omicidi” di Jules Feiffer siamo messi un po’ meglio: conosciamo i colpevoli…gli autori delle opere che abbiamo l’opportunità di osservare. Poi, in aggiunta, potremmo dire che qualche cosa in comune ce l’hanno – autori e opere, s’intende: sono figli o nipoti della profonda crisi che investe il gesto artistico nel corso degli anni Settanta. Una crisi che ha attraversato tutto il decennio successivo: quei “mitici” anni Ottanta dove si produceva molto ma si pensava poco; dove il pensiero s’indeboliva e tutto sembrava ammissibile e facilmente “digeribile”.
La dissoluzione irreversibile del clima “informale”, l’implosione del cinismo della pop art, la violenta rarefazione dei contenuti emozionali dell’opera a favore di una ricerca tutta teoretica imposta dall’arte concettuale, generano uno stato ansioso al quale si cerca di rispondere nei modi più differenti: dalla citazione al trionfo del colore, dal recupero di stilemi di ascendenza espressionista alle investigazioni sulle relazioni tra spazio umano e spazio culturale. 
Sono queste le premesse di quel singolare e discusso Kunstwollen che si è chiamato “postmoderno”. Un modo di operare che non sembra riconoscersi più nelle visioni finalistiche proprie delle “grandi narrazioni” moderniste capaci di dare un senso compiuto e una legittimità all’esistenza attraverso una prospettiva certa, che rifiuta il bando dell’emozionalità, di una narrazione incompiuta, fragile. Difficile trovare il “colpevole” perché ormai alle “grandi narrazioni” sono subentrate molteplicità di piccoli racconti che generano spaesamento, che saccheggiano il patrimonio linguistico e culturale e disorientano la lettura del mondo e delle cose.

Dunque, i nostri autori rientrano in questa prospettiva operativa?

In parte sì. Ma solo in parte. Non solo e non tanto per le differenze generazionali, ma perché la loro “post-modernità” mostra tratti quanto mai originali.
Rinaldo Novali sembra vivere la mobilità e la convulsione di questo incerto traghettamento creativo con singolare pacatezza: i valori della pittura, nei suoi materiali e nelle sue tecniche, vengono ridefiniti con una decisione parsimoniosa. Niente a che vedere con le derive manieriste dell’ “anacronismo”, con il recupero di tecniche e stilemi della grande arte del passato, né con il nomadismo contenutistico e formale della Transavanguardia.
Novali è attento alla misura, pratica un gesto essenziale, fatto di accenni, di sorprese, di rari smottamenti. La composizione e la gamma cromatica rarefatta dispongono l’immagine sul crinale incerto del passaggio rituale del tempo, quasi si trattasse di un’emersione lenta, di un parto che trascina verso l’esterno – verso l’occhio dell’osservatore – il dolore della gestazione.
Altrettanto “solitario” è il percorso che intraprende Antonio Violetta. Non si lascia sedurre dall’incognita dei materiali, né dai giochi virtuali delle luci e delle ombre creati dalle loro masse. Cerca piuttosto di stabilire una connessione tra il corpo della materia e il progetto umano che agisce su di essa: c’è una riflessione di ordine concettuale e costruttiva che fa sì che le sue sculture sfuggano dall’insidiosa – e ipocrita – dicotomia tra astrazione e figurazione.
A Violetta interessa esaltare lo stupore e l’incanto delle impronte emotive che modificano il tessuto della materia, conferendole equilibrio e forma. La sua scultura è una modalità per conoscere le reazioni che le forme assumono nello spazio: uno spazio sensibile, intenso, fatto di esplosioni e di gesti pacati, di fratture e di ricomposizioni. Un corpo vivo in cui convivono in costante, violenta tensione consistenza materiale e poeticità del linguaggio che l’interroga.
Ecco delinearsi una traccia che probabilmente accomuna l’opera di Novali e di Violetta e la ricerca dei giovanissimi Maranelli e Branchetti: l’inattualità. Vale a dire la convinzione che il gesto artistico non sia assimilabile a un cerimoniale accettato, a un’omologazione più o meno consapevole.
Martina Maranelli si mostra come singolare archeologo che cerca di ricostruire il corpo del vissuto. I suoi sono reperti di un universo dove i rapporti causa-effetto sono collassati e dove l’operare dell’artista cerca di recuperare e ricomporre in modo non retorico l’integrità di un’esperienza sempre sull’orlo della dissipazione.
Arte e vita non sono più la stessa cosa, non sono sovrapponibili e nemmeno comparabili; tuttavia l’arte, pur nella sua convenzionalità, può nominare il mondo e lo stato dei suoi conflitti con gesti di rare poeticità.
Federico Branchetti, per parte sua, pensa la scultura in modo dinamico e ambivalente. Non disdegna le incursioni nelle pratiche “relazionali” dove la tensione fisica si dissolve, sempre mantenendo al centro della sua riflessione lo sforzo di rendere visibile l’equilibrio del ritmo imposto alla materia. Una materia ambigua – si tratti della terra o del video – che si traduce in immagine carica di tensione e di desiderio: un’oscillazione di energie e di pensieri per ripensare lo spazio “sacro” in cui l’arte prende corpo.

Bruno Bandini
Beatrice Buscaroli

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