Una frase stentorea apre lo spazio che Federico Branchetti dedica al sapiente gioco dei suoi equilibri. Quei pochi versi vergati sulla parete hanno un qualcosa di tellurico, di sonoro, di drammatico. Tutto riecheggia di un boato che fa tremare l’aria, come quella fiera che impedisce a Dante di salire al Monte (“..si che parea che l’aere ne tremesse”, Canto I, Inferno). Da quel presagio notturno, ancora illuminato dalla luna, si dipana l’orizzonte sopra e sotto il quale sta tutto.
Infatti la presenza del testo che l’autore accompagna alle opere è uno statement visivo, netta linea di demarcazione di quell’ambiente che va man mano aprendosi: dalla soglia di una grotta impariamo ad alzare lo sguardo verso una luce altrettanto misteriosa e siderale. Questa carrellata, quasi cinematografica, scandisce qui i punti della scultorea di Branchetti. Il suo fare, che si può dire essere in punta delle dita, si origina da quel momento di concentrazione che è proprio della poetica di questo artista. ‘Concentrazione’ come duplice significato. Il primo è il silenzio, quasi crepuscolare, che si equilibria al fragore del tuono ora evocato, poche opere e intime: l’arte di Branchetti non vuole suggerire interrogativi, tuttavia se li pone. Come contenere la figura? Come renderla pesante ma leggera? Come restituire quella gravezza materica?
E qui apre al secondo significato, nell’ordine della densità. Concentrare in un cubo invisibile (alla maniera di Giacometti), un soggetto e una posa affinché all’interno di questo spazio una figura sia compressa al suo massimo. Non è solo un fattore di scala, come verrebbe da pensare, ma di Potenza e di Estasi. Mantenere quindi le stesse forze in un diverso ordine di grandezza è il tentativo (parola che sottolinea non tanto l’acerbezza quanto la capacità trasformativa) che sigilla un certo magnetismo nella materia depositata.
Il soma/corpo è il luogo dove accadono questi tentativi. Guardando alle opere di Branchetti si nota la ricorrenza della figura, del suo studio, e come qui si erige da sdraiata fino a diventare un volto eroico. Ma senza che questo volto sia caratterizzato dai tratti del viso: è un pre-testo perché il volume trovi la tanta cercata necessarietà. Pronta a stare per sempre e a sempre stare. Questo è il fare di Branchetti, del suo disegno, del suo modellare, della sua scultura.
Il principio aristotelico applicato all’opera (che così può essere e in nessun altro modo, come anche sosteneva Rothko) informa la soddisfazione del bisogno dell’autore, senza scendere in un’arte descrittiva. Le due opere di figure infatti, nella loro sintesi, hanno piena libertà espressiva: seppur rispondono alle regole di plasticità, atteggiamento, statica, ecco che nel loro avvilupparsi possono ricordare un drago o un leviatano, o ancora una voluttuosità femminile come era delle veneri arcaiche. Il ritorno alle icone rupestri, alla divinità ctonia di una Madre Terra (per gli etruschi spesso raffigurata con serpenti) è l’espediente per accogliere la dimensione del rito. I concetti spaziali di orizzonte e caverna diventano quindi teatro di quella ritualità ancestrale dove veneri, mostri marini, ed eroi, non sono più tali e non rispondo a una lettura leggendaria dell’opera di Branchetti, ma sono piuttosto frutto dell’altro rito, della lentezza. Il costante esercizio che con pochi gesti trova un volume nello spazio è la personale grammatica della scultura dell’autore, per così dire sul fare della sera. Questa non si riduce alla sola plastica, ma come abbiamo visto ricorre al disegno e al testo e in ultima istanza anche al colore: un occhio aperto all’infinito alto è appena una grafite e pastello a cera su una lamina di ceramica; le tre dimensioni sono ancora qui contenute nonostante se ne sacrifichi una, sempre ad agire su quel confine che l’artista sceglie di abitare.
Cristoforo Maria Lippi
Siena è una città che ruota su stessa due volte l’anno, in tre giri di piazza. Il Palio è la storia della città, una storia che si ripete in una circolarità continua. Siena è quindi la città ideale dove poter mettere a sistema una ridiscussione della storia lineare dello sviluppo dell’arte, in una continua idea di progresso e sviluppo.
Per farlo dobbiamo tornare ad una data-feticcio: il 1888. La prima Rivoluzione Industriale era già avvenuta, le future metropoli si muovevano in un rapido sviluppo che attirava ampia manodopera dalle campagne. La maggior parte della popolazione proletaria o sub-proletaria in arrivo era presto destinata ad un lavoro alienante. E in questo contesto che si tiene, proprio nel 1888, la prima mostra dell’Arts&Crafts Exhibition Society. Seguendo i postulati di Ruskin, tra i primi a segnalare il grande pericolo di una netta separazione tra progettazione e realizzazione manuale, la proposta delle Arts&Crafts è quella di un ritorno alle pratiche artigianali. Più in particolare è proprio la realtà della bottega a risollevare la pratica artistica e produttiva: un luogo in cui le diverse forze sociali, creative e produttive si incontrano in una serie di buone pratiche. Rispetto al modello della bottega, dove ciascuna delle parti conosce il processo di sviluppo di un oggetto nella sua interezza, esistono solo due esempi: il meccanismo produttivo alienante della fabbrica e la solitudine dell’artista nel proprio studio.
Sara precisamente quella solitudine, l’incapacità di sentirsi parte di una comunità, che spingeranno Gauguin, proprio nel 1888, a muoversi verso Arles dove raggiunge Van Gogh. Del resto è stata proprio la generazione dei pittori post-impressionisti a mettere in luce il bisogno di tornare verso un primitivo, verso un senso di appartenenza e comunità”. Anche per questo la campagna e riti collettivi erano la risposta all’alienazione cittadina.
Una risposta che non diverge dalle soluzioni adottate anche dalle Arts&Crafts che sostenevano la necessità di abbandonare la città per rifugiarsi nelle campagne, lavorando con la popolazione e rifuggendo il lavoro con “esperti”. Questa progressiva fuga (unita alle ispirazioni di stampo medioevale suggerite da Ruskin) hanno portato a leggere il movimento in chiave anti-moderna. Se però ci fermassimo a vedere la nostra contemporaneità, rappresentata oggi nel lavoro di questi quattro giovani artisti in mostra, ci accorgeremmo che molti dei fattori proclamati da questi movimenti ritornano con grande forza oggi. Ecco dunque che si palesa la necessità di ridefinire questa terminologia pensando non ad un modello di opposizione alla modernità, ma alla costruzione di un modello alternativo di modernità. Un nuovo modo di pensare il presente non più come successione meccanica e positivista in continuo sviluppo, ma come una serena convivenza di pratiche più attente al rispetto delle risorse e della tradizione. Un modello che tenga presente l’importanza dell’incontro con l’Altro e con la sua testimonianza.
E sono del resto l’Altro e la testimonianza anche i punti saldi che Recalcati propone oggi come risposta alla società ipermoderna che ci circonda e che opera spesso proprio in recupero di una “tradizione” e di un “locale” non più ancorati ad alcuna specificità, ma specchio ultimo di celebrazioni a carattere narcisista e individualista? La sfida vera, dunque, è ripensare ad una tradizione svuotata da ogni retorica, un alter-tradizione se così si può definire. Ed è precisamente all’interno di questa alter-tradizione che possiamo inserire i lavori dei quattro giovani artisti in mostra: un ritorno alla pratica del fare, un modo per ripartire da riti condivisi, dalle ceneri della modernità.
Irene Biolchini
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